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Discorso del nostro socio onorario Paolo Crosa Lenz in occasione delle celebrazioni del 4 novembre

 

Discorso del nostro socio onorario Paolo Crosa Lenz in occasione delle celebrazioni del 4 novembre
Intra – 4 novembre 2015
Cittadini di Verbania
Donne e uomini delle terre verbanesi, ossolane, cusiane
Autorità civili, militari e religiose

Cento anni fa cominciava per l’Italia la prima guerra mondiale. Per l’Italia e per la nostra gente, la Grande Guerra fu “grande” perché (si pensava) nessuna sarebbe mai più stata così e “guerra” perché morirono 650.000 italiani, per lo più ventenni (mille di loro erano nati sui nostri monti e sulle rive dei nostri laghi). Essa rimane ancora oggi un mito forte per gli uomini delle Alpi, perché combattuta in montagna (il “baluardo del sacro suolo”), terreno di imprese epiche tra rocce e ghiacci.

Per cinque anni l’Europa ne fu sconvolta e pagò con nove milioni di morti le follie dei nazionalismi esasperati. La retorica nazionale (il salvifico “caldo bagno di sangue” oppure la “conclusione del Risorgimento” con la conquista di Trento e Trieste) lasciò ben presto spazio ai tristi canti della memoria di guerra, al “Ponte di Perati”, a “Gorizia tu sei maledetta”.
 
 Nella storia delle nostre terre, del Lago Maggiore, dei monti della Val Grande, delle Alpi Pennine e Lepontine la memoria della Grande Guerra rimane per tre aspetti che ritengo importante ricordare in questa occasione e che, non tutti, sono conosciuti.
 
 
 Il “Battaglione Intra”
 
 Il battaglione alpino Intra nasce nel 1908 sulle rive del Lago Maggiore. In 35 anni di storia gloriosa, di arditi e tenaci combattimenti, di sofferenze e onori portò in ogni teatro di guerra il nome della città verbanese. Era un tipico reparto di montagna, impegnato sovente in combattimenti alle quote più elevate e nelle condizioni più estreme, raccolse sempre i suoi soldati prevalentemente nelle valli alpine dell’Ossola, del Verbano e del Cusio e del Varesotto. Sui monti delle Alpi Pennine e Lepontine si svolse sempre l’attività addestrativa e di formazione delle truppe, dalla nascita fino alla seconda guerra mondiale. Quello dell’ “Intra” era un nome familiare nelle valli dell’entroterra verbanese, simbolo di servizio militare, di alto senso del dovere e di fedeltà alla patria.
 
 La costituzione del battaglione Intra è legata ad un evento epocale che cambiò, agli inizi del Novecento, la geografia delle comunicazioni in Europa: l’apertura del tunnel ferroviario del Sempione. La linea ferroviaria diretta Milano – Berna stabiliva un collegamento lineare tra il Mediterraneo e l’Europa centrale con innegabili vantaggi economici e commerciali. Creava tuttavia, negli stati maggiori dell’esercito, preoccupazioni militari di carattere strategico perché facilitava l’accesso all’Italia da parte di eventuali eserciti stranieri. L’esercito decise quindi un rafforzamento delle truppe alpine poste a difesa del confine settentrionale. Nacque così il battaglione Intra.
 
 La sua costituzione fu accompagnata da polemiche e contrasti tra Domodossola e Pallanza che inizialmente avrebbero dovuto ospitare il costituendo reparto alpino. Per una città, ospitare e dare il nome ad un battaglione era un indubbio onore e un’affermazione a livello nazionale, ma al fatto erano legati anche indubbi vantaggi economici e commerciali legati alla presenza di truppe numericamente consistenti. Intra, agli inizi del Novecento, era una cittadina con un’economia industriale vigorosa e in espansione. La “piccola Manchester del Verbano” aveva una classe dirigente con spiccate doti imprenditoriali e una robusta rete di servizi (la banca, la scuola tecnica, le strutture per il tempo libero ecc.).
 
 Dal battesimo del fuoco in Libia e nella prima guerra mondiale, alla campagna in Africa Orientale e sul fronte greco albanese, fino all’impiego in Jugoslavia la memoria degli alpini dell’Intra è scolpita nei monumenti ai caduti di ogni sperduto villaggio di montagna o di lago.
 
 Dopo l’8 settembre 1943, nello sbandamento generale, i soldati dell’ “Intra” che non furono catturati dai tedeschi e inviati come internati militari nei lager, iniziarono la lotta antinazista, prima autonomamente ed in seguito con l’Esercito di Liberazione Jugoslavo di Tito. Furono quindici mesi di disperata lotta partigiana in Bosnia e Montenegro alla guida del capitano Zavattaro Ardizi in cui alpini ed artiglieri, insieme con tanti altri soldati italiani, con i nemici di ieri contro gli ex alleati, seppero riscattare il nome dell’Italia che usciva dalla dittatura, mettendo le basi del nuovo esercito italiano, un esercito impegnato per la difesa della pace e non più per fare la guerra.
 
 Oggi all’alpe Pala, sul Memoriale degli Alpini sono incisi in bronzo i nomi di 349 caduti nella guerra 1915–18, 47 caduti nella guerra 1935–36 in Africa Orientale, 295 caduti nella guerra 1940-45. Operiamo tutti insieme affinché non ci siano più nomi da incidere nel bronzo.
 
 
La “Linea Cadorna”
 
 La memoria della prima guerra mondiale è impressa nel nostro territorio con quel sistema di fortificazioni militari conosciuto come Linea Cadorna. Esso doveva difendere il confine nord dell’Italia a ridosso della Svizzera. Le linee fortificate proteggevano il territorio italiano tra il Gran San Bernardo e la Valtellina. Nel Verbano e nell’Ossola esse coprono un dislivello di 2.000 m tra la piana del Toce e il Monte Massone e fra il Lago Maggiore e il Monte Zeda. Furono costruite tra il 1916 e il 1918 in funzione difensiva a fronte di un eventuale attacco austro-tedesco attraverso la Svizzera e furono volute dal generale Luigi Cadorna di Pallanza, capo di stato maggiore dell’esercito italiano fino al 1917. Apparteneva ad una nobile famiglia di tradizioni militari; il padre Raffaele nel 1870 aveva guidato la conquista di Roma attraverso la “Breccia di Porta Pia”.
 
 All’inizio del 1916 i comandi militari italiani temevano un’invasione tedesca attraverso la Svizzera, la cui neutralità non veniva considerata più certa. Fu questa convinzione a decidere la realizzazione della linea difensiva fra Piemonte e Lombardia i cui piani di attuazione erano già stati elaborati negli anni precedenti. La linea difensiva comprendeva un fitto reticolo di strade e mulattiere militari, trincee, postazioni d’artiglieria, luoghi di avvistamento, ospedaletti e strutture logistiche, centri di comando. Furono impiegati 15 – 20.000 operai con punte di 30.000 nella primavera del 1916. Le fortificazioni non furono mai utilizzate per il successivo decadere delle strategie militari legate alla “guerra di posizione”. Oggi rimangono, ad un secolo dalla loro costruzione, come un patrimonio di sentieri per l’escursionismo e un complesso di archeologia militare per molti aspetti stupefacente sia per l’imponenza delle opere, sia per la possibilità di leggere sul territorio un momento della storia di questo secolo. Una lezione della Storia per cui queste strade di guerra rimangano sempre sentieri di pace.

 La Rumianca di Pieve Vergonte
 
 Il “XXIV maggio” 1915 (quante vie o piazze nei nostri paesi lo ricordano!) l’Italia entra in guerra contro gli Imperi Centrali. La società italiana, come tutte quelle europee, è “militarizzata”.
 
 La “Rumianca” nasce come industria di guerra, perché l’urgenza bellica strategica è l’installazione di un impianto di elettrolisi per la produzione di cloro-soda che richiede elevate quantità di energia elettrica. Scopo dell’azienda (dietro cui ci sono gli “uffici tecnici” dell’Esercito) è la fabbricazione di “aggressivi”, in particolare di fosgene che, a temperatura ambiente, è un gas incolore estremamente tossico e aggressivo, dal tipico odore di fieno ammuffito. E’ simile all’iprite, il letale “gas mostarda” utilizzato per la prima volta in Belgio, il 12 luglio 1917 dall’esercito tedesco. In realtà, sebbene le produzioni iniziassero nel 1916, il “progetto Rumianca” fu elaborato nella primavera-estate del 1915, al momento dell’entrata in guerra dell’Italia.
 
 Perché proprio Pieve Vergonte per l’ubicazione di un’industria di così rilevante peso storico e impatto ambientale? Un insieme di ragioni tecniche e storico-politiche influirono sulla scelta. Fondamentalmente furono tre: l’abbondanza di energia elettrica “vicina”, le necessità belliche in cui la “nuova chimica” aveva importanza strategica fondamentale, l’urgenza di disporre di un’area defilata di alto consenso sociale per produzioni ad alto rischio.
 
 La militarizzazione del territorio comportò l’allestimento a Rumianca di caserme per 200 soldati, ufficio per la Guardia di Finanza, uffici del Corpo Aeronautico e del Servizio Chimico Militare. Sino al 1919 la produzione si concentrò su gas tossici, soda caustica, nebbiogeni e fumogeni.
 
 Nel 1920 tornano a Rumianca i soldati per svuotare 2000 bombole di fosgene: un lavoro ad alto rischio, svolto in segreto mentre i prati inaridivano e le mucche cessavano di avere latte, le acque del fiume Toce e del Lago Maggiore cominciavano ad avvelenarsi. Un problema che, ad un secolo di distanza, rimane di scottante attualità.
 
 La lezione della Storia
 
Molta retorica è stata spesa sulla “vittoria” nella prima guerra mondiale. Soprattutto però, buone e solide iniziative di memoria e di servizio sono state realizzate dai nostri Gruppi Alpini dell’ANA di Intra. Lo “spirito alpino” (concretezza di realizzazioni e sostanza di parole) ha prodotto sempre e ovunque risultati positivi per chi vive in montagna.
 
 E’ venuto tuttavia il tempo, ed è anch’esso buona cosa, di smantellare “stereotipi consolidati”. Quello che gli storici seri hanno concluso in tanti anni di lavoro, ma non era penetrato nella coscienza collettiva, poteva farlo solo la poesia. Ermanno Olmi (“Torneranno i prati”) ha detto in un film semplice e bellissimo due cose: quei ragazzi (i giovani per noi arruolati nel Battaglione Intra) morirono inutilmente, perché i nemici non erano gli austriaci (ragazzi come loro), ma logiche di guerra che non tenevano in alcun conto la vita dei soldati. Il generale Luigi Cadorna non fu un grande stratega obbligato a scelte difficili dai tempi bellici, come un certo revisionismo storico vuole far credere. La “rotta” di Caporetto, che Cadorna attribuì alla vigliaccheria dei soldati, non fu la “allegra passeggiata” del padre Raffaele attraverso la “breccia” di Porta Pia, ma un disastro che vide il nostro esercito arretrare di 150 chilometri e lasciare in dietro trecentomila uomini (morti, feriti, prigionieri). Cadorna amava dire: “Le uniche pallottole che non ci mancano sono gli uomini”! E che, come ogni cosa che “non manca”, si può sprecare.
 
 Ti viene un male sottile nel pensare a queste cose. Il primo morto della prima guerra mondiale fu un anzaschino (Giovanni Bionda di Vanzone), il primo morto della seconda guerra mondiale fu un vigezzino (Luigi Rossetti di Craveggia), i primi letali gas tossici sono stati prodotti qui (alla Rumianca di Pieve Vergonte). Siamo una terra di record tristi!
 
 Giovanni Bionda morì all’alba del XXIV Maggio 1915 (ore 4,30) sul monte Hernic, al Passo Zagredan nella zona del Monte Nero (alta valle dell’Isonzo). Era di pattuglia e i soldati italiani non avevano ancora sparato un colpo. Pronti e via! Aveva vent’anni. Era del 1895.
 
 Nei nostri dialetti l’espressione “ambaradam”, indica una situazione di caos assoluto e irrisolvibile. Deriva dalla battaglia di Amba Aradam (15-16 febbraio 1936) combattuta dagli alpini del Battaglione Intra sulle ambe (gli altipiani assolati e desolati dell’Etiopia) dove furono mandati a combattere con scarponi e pesanti abiti di feltro. Poi venne la Russia, dove gli stessi Alpini furono mandati a combattere contro gente come loro, con ai piedi scarponi imbottiti di cartone nell’inverno terribile del Don.
 
 Permettetemi, concludendo, di pensare da vecchio insegnante, abituato a tradurre le conoscenze in pedagogia. Credo che tutti abbiamo due doveri: uno verso chi non c’è più e uno verso chi deve ancora venire. Verso le generazioni del passato (i “ragazzi del ‘98”) e verso le generazioni future.
 
 Il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale può essere l’occasione per ricordare gli Alpini dell’Intra (quei ragazzi con la nappina verde conservata in ogni baita dei nostri monti) e il loro sacrificio obbligato.
 
 Smantellare la retorica dei mausolei può essere doloroso, ma è un dovere che abbiamo verso i nostri giovani. Solo con la verità una nazione diventa libera e può progredire. Ai nostri giovani dobbiamo però anche trasmettere l’alto senso del dovere, la capacità di sacrificio, il senso di Patria di quella lontana generazione di uomini.
 
 
 
Ornavasso, 31 ottobre 2015
 
 Paolo Crosa Lenz
 

Lions Club Domodossola

Gianpaolo Fabbri

addetto stampa

 

INFO:– 349 8045990 – gianpaolofabbri@email.it

Presidente Gianpaolo Prola